Pasqua e’ passata, Pasquetta da queste parti conta poco o niente (provate a “picnicheggiare” quando la temperatura e’ sui dieci gradi e fuori abbaia anche un vento cane).
E’ stata comunque una Pasqua diversa, erano due anni che non c’erano ammucchiate familiari.
Stavolta tutte le sedie della tavola lunga erano occupate.
Bless us, O Lord, and these your gifts ..
Ad intonare la preghiera e’ il piu’ scavezzacollo dei nipoti, Daniel, che una ne fa e cento ne pensa.
Ringraziato il Signore, si parte all’attacco.
Arriva la prima portata.
Zuppa di verdura all’osso di prosciutto.
What’s this!, chiede allarmato lo scavezzacollo che, tra l’altro, e’ un picky eater, un mangiatore schizzinoso.
Nicholas, il fratello maggiore, che come forchetta ha preso da qualcuno che conosco, assaggia e divora la pietanza: “It’s good”, il suo giudizio dopo che il piatto e’ rismasto asciutto e l’osso spolpato.
Le bimbe, direi le signorinelle, Sophie e Louisa, ci vanno piu’ delicate: mezzo cucchiaio alla volta tanto per capire di che si tratta.
Mentre la “discendenza” adocchia il resto della tavola imbandita, io incrocio lo sguardo della mia signora, Maria, e la ringrazio con lo sguardo perche’ ho un groppo in gola.
Le avevo raccontato che a Pasqua si andava sempre nella grande masseria del nonno paterno, il Nicola Sparano originale.
Il pranzo pasquale iniziava sempre allo stesso modo, con la zuppa di verdure all’osso di prosciutto.
“E’ una nostra antica tradizione, anche mio padre e suo padre cominciavano cosi’ e cosi’ continueremo finche’ campo, poi fate come volete”, asseriva il nonno ogni volta che noi nipoti (due, entrambi con il suo nome) ci lamentavamo che non si cominciasse con un bel piatto di pasta.
Avevo raccontato della tradizione il giorno delle Palme, lamentandomi del fatto che un’altra bella scheggia del passato era andata perduta.
Invece a casa mia e’ rinata per iniziativa, bellissima, della mia signora
che e’ andata appositamente in un supermercato cinese della zona per comprare l’osso di prosciutto.
“That’s ammore”, per dirla cantando come la buonanima di Dean Martin.
Per accedere alla masseria del nonno bisognava imboccare la Viella della Morte detta cosi’ per il gran numero di decessi avvenuti nelle case della stradina durante l’epidemia Spagnola del 1918.
La masseria aveva al centro l’aia, intorno c’era da una parte la stalla e il forno dall’altra le abitazioni, dietro un grande orto.
Io quando andavo dal nonno dormivo nella stanza con mio omonimo cugino.
La mattina di Pasqua ci svegliavano quando si “scioglievano” le campane della vicina chiesa di San Lorenzo.
Se non facevo in tempo a nascondermi nell’orto, il nonno mi trascinava in chiesa per la messa di Pasqua.
Ricordo ancora quelle messe.
Spalle alle gente, il prete vestito di nero officiava in latino poi predicava lanciando tuoni e fulmini contro i peccatori.
Quelle antiche funzioni, per quel che ricordo, erano per cosi’ dire opprimenti, rattristanti, perche’ l’enfasi era sul peccato e le sue conseguenze e non sulla pace dell’anima e del mondo.
Oggi, per fortuna, la messa e’ cambiata cosi’ come la terminologia
Ora chi dice messa ci guarda in faccia, si fa capire.
Non piu’ preti in nero, non piu’ spalle ai fedeli, non piu’ latino.
La fase per me piu’ toccante della messa e’ quando dall’altare si suggerisce di “scambiatevi un segno di pace”.
La pace e’ un bene senza prezzo, purtroppo c’e’ sempre qualcuno che la calpesta.
In Ucraina la guerra continua a seminare morte e distruzione.
E’ da quando e’ scoppiato il conflitto che ci chiediamo come si possa fare per fermarlo.
Le opinioni al riguardo sono quasi infinite, ma soltanto in teoria.
In pratica i progressi sulla strada di una eventuale pace sono praticamente non esistenti, lenti, macchinosi.
Oltre alla minaccia della guerra atomica, che terrorizza tutti, a pare mio, c’e’ anche un altro aspetto molto inquietante del conflitto.
Il giornaliero bombardamento mediatico delle cronache in Ucraina ci stordisce e sembra che ci faccia assuefare agli orrori della guerra.
Cominciano ad essere considerati da tutti quasi come misfatti ordinari, il triste prezzo da pagare come si trattasse di un qualcosa che non ci riguarda da vicino.