Forse uno dei dibattiti più accesi che sono attualmente in risalto in Italia è quello della cittadinanza per i figli di emigrati nati in Italia. Le opinioni sul tema sono molteplici e non sempre coerenti e composte, ma esso è indubbiamente un chiaro segnale di un’Italia che è cambiata e che continua a cambiare. Cittadini quindi per diritto di sangue, cioè per discendenza, o perché si nasce su un territorio? Parte da qui il dibattito sui cosiddetti “ius soli” e “ius culturae”, latino da giuristi calato nei titoli dei giornali. Il tema è certamente serio: chiama in causa il Paese che si vuole diventare, ma, a giudicare dalle modalità, si direbbe che il nostro sia stato finora un dibattito “di scuola”, condotto dando per scontato che le due alternative, sangue e suolo, siano secche, automatiche e prive di possibili correttivi. La realtà invece è un po’ più articolata e complessa.
Ma prima di guardare alla realtà italiana è bene considerare dove lo ius soli è legge vigente da decenni. Gli Stati Uniti e il Canada sono Paesi in cui ancora esiste la legge del ius soli. I figli e nipoti di italiani emigrati, come pure da altre nazioni, nati negli Stati Uniti e nel Canada per decenni sono legalmente cittadini americani o canadesi dal momento in cui sono nati nel suolo americano o canadese. Grazie a questa legge, i figli e nipoti si sentono parte delle rispettive società poiché godono ugualmente come tutti gli altri di tutti i diritti di cittadinanza. Naturalmente vi sono stati e vi sono abusi, per cui ci sono stati e vi sono parecchi casi di “birth tourism” cioè turismo per le nascite, in altre parole di donne in attesa che vanno in Canada o negli Stati Uniti per il solo motivo di far nascere lì i loro figli per far sì che abbiano la cittadinanza canadese o americana. Per risolvere questo problema, i rispettivi governi non si sono ancora impegnati pienamente.
Ma come funziona davvero oggi in Italia e come potrebbe funzionare, qualora si scegliesse la strada dello ius soli, l’acquisizione della cittadinanza italiana? Secondo le leggi che disciplinano attualmente la cittadinanza (Legge n.91/92 e Dpr n. 572 del 1993) oggi si è automaticamente italiani se si nasce da un genitore italiano ovunque nel mondo. Oppure se si nasce in Italia da ignoti, da apolidi, o da genitori che provengono da un Paese che non dà la cittadinanza ai figli dei propri cittadini nati all’estero. Tutti gli altri hanno la cittadinanza del Paese d’origine dei genitori, a meno che non vengano adottati o riconosciuti da un italiano o che non diventi cittadino italiano il genitore con cui convivono. Detto questo la cittadinanza si può acquisire, nei casi previsti per cittadini stranieri di nascita se si hanno requisiti specifici troppo numerosi da elencare qui.
Tutto questo determina dei paradossi. Per esempio, fa meno fatica a diventare cittadino italiano un adulto che abbia sempre vissuto altrove, senza legami effettivi con il territorio italiano, se ha un nonno che sia stato cittadino italiano per nascita (il caso dei calciatori cosiddetti oriundi), rispetto a un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri, che abbia sempre vissuto qui e non sappia nulla del suo Paese d’origine. Se al primo bastano tre anni di residenza legale in Italia, il secondo deve aspettare la maggiore età. E allora lo “ius soli”? Se, come si è visto l’automatismo delle ius sanguinis determina dei paradossi anche lo ius soli se applicato in automatico potrebbe determinarne. Se bastasse nascere in Italia per essere considerati italiani, senza altri correttivi, il Paese divenendo di fatto appetibile per le madri straniere in attesa, potrebbe diventarlo “sinistramente” anche per i criminali che traggono illeciti guadagni dalla tratta di esseri umani.
Ma è nel mondo scolastico che il dibattito sulla cittadinanza è di grave importanza. Secondo Eurispes (Istituto di Ricerca degli italiani) nel “Rapporto Italia 2021” (Per una nuova Ricostruzione) dedica un paragrafo ai percorsi scolastici di bambini e bambine, ragazzi e ragazzi di origine migrante, mostrando come nel Paese gli alunni con cittadinanza non italiana abbiano superato nell’anno scolastico 2018/2019 le 850.000 unità (con un incremento del 16 per cento rispetto all’anno precedente), attestandosi a una quota del10 per cento del totale degli iscritti nelle scuole italiane. “Ogni politica volta al respingimento, alla negazione o alla stigmatizzazione dei migranti – scrive l’istituto di ricerca – è destinata a infrangersi su una realtà complessa, irrinunciabile e inevitabilmente orientata a essere interculturale e non monoculturale o mono-identitaria”.
Di recente Vittoria Casa, presidente commissione Cultura Scienza e Istruzione alla Camera, ha dichiarato che “È tempo di dare una risposta a quasi un milione di ragazze e ragazzi che sono italiani quando parlano, studiano, giocano, gareggiano, tifano, vivono, e non sono invece italiani sui rispettivi documenti. Dare il diritto di cittadinanza al termine del ciclo di studi è una proposta che permetterebbe di avvicinare le diverse sensibilità e posizioni parlamentari.”
In molti Paesi avanzano le proposte di cosiddetto ius soli “temperato”, in cui si svincoli il legame automatico dalla cittadinanza dei genitori per individuare al suo posto un insieme di regole che facilitino il riconoscimento “dell’italianità” del bambino nato o cresciuto in Italia, magari legandolo alla frequenza della scuola. Un concetto che alcuni esperti hanno definito “ius culturae”, perché è la cultura che forma, anche più della nascita, l’identità e l’appartenenza. Ovviamente la mediazione non cancellerà, com’è giusto che sia, il dibattito, semplicemente lo sposterà sulle regole di “temperamento”, che alcuni vorranno più restrittive e altri meno.